SULL'UTOPIA

L’UTOPIA: DAGLI ALBORI DELLA STORIA FINO AD OGGI.
È ANCORA POSSIBILE UN PENSIERO UTOPICO?


Che cos’è un’utopia? E’ una terra di perfetta armonia, dove vige la giustizia e da dove le iniquità sono state bandite, anzi, dove propriamente non sono mai esistite, a dispetto della società in cui quotidianamente ci troviamo a vivere, fluttuante tra le imperfezioni e i difetti della peggior specie.

Nel linguaggio comune, si dice che è utopico un progetto immaginario, una fantasticheria che non è realizzabile, ma che se lo fosse sarebbe un bene: ogni tanto fa a tutti piacere sottrarsi all’ordinarietà della vita per trovar rifugio nelle sconfinate lande dell’utopia, del mondo fatto su misura per noi.

“Utopia” è un termine greco, anche se non furono i Greci a coniarlo, ma un pensatore cristiano vissuto in età rinascimentale, Tommaso Moro: inappagato della realtà in cui viveva, del clima di accesa intolleranza che in quegli anni si respirava nell’Inghilterra dilaniata dai conflitti religiosi, egli volle immaginare un’isola felice, sulla quale gli abitanti conducessero una vita migliore, più umana e solidale.

A quest’isola immaginaria attribuì il nome di “Utopia”, giocando sulla bivalenza del termine: esso infatti, può derivare tanto dal greco ou - topos (luogo che non c’è), quanto da eu (bene) + topos (luogo felice); in un certo senso, comunque, i due significati erano compresenti nell’accezione in cui Moro intendeva la sua isola fantastica, visto che essa era sì un luogo inesistente nella realtà, ma anche un luogo felice, in cui regnava la concordia e la pace tra gli uomini. I motivi che hanno indotto nella storia i pensatori a prendere le distanze dalle società reali e a rifugiarsi in costituzioni e paesi immaginari, frutto della loro fervida fantasia, possono essere tanti: primo fra tutti è senz’altro la profonda insoddisfazione nei confronti dello stato di cose, un senso di amara delusione per il paese in cui si vive.

Ma, tornando indietro nei secoli, è anche il caso di Platone, il filosofo ateniese che, dopo aver per qualche tempo nutrito la speranza di far diventare filosofo il tiranno di Siracusa, venne smentito e da lì nacque il suo disincanto: uno stato perfetto, in questo mondo, mai c’è stato né mai ci sarà, e l’unica cosa saggia che si possa fare è provare a tratteggiarne uno, assolutamente ideale, che serva da modello e, al contempo, da critica a quello reale.

Ed è su questi presupposti che ebbe origine la “Repubblica”, il poderoso scritto in cui Platone tracciava uno stato perfetto, destinato ad essere preso a modello per interi secoli, dai comunisti, dai socialisti e, in qualche modo, perfino dai nazisti, che nei loro zaini custodivano sempre una copia del testo, affascinati soprattutto dalla vita “cameratesca” e dalla selezione “eugenetica” proposta da Platone. Popper si accorse delle insidie che si annidavano nello scritto platonico, cogliendo in esso una forma di “società chiusa”, che, in quanto già perfetta, non ha alcun bisogno di “aprirsi” al confronto con altre società: ed è questo, secondo il pensatore viennese, un carattere in qualche misura comune a tutte le utopie, in quanto tutte avanzano la pretesa di essere modelli perfetti; dal canto suo, invece, la “società aperta” non è perfetta, ma ha coscienza della propria imperfezione ed è perciò stimolata al confronto con le altre società, per potersi così perfezionare incessantemente.

Nella società platonica non c’è posto per le differenze tra uomini e donne, che peraltro sono talmente irrisorie da essere accostate a quelle che intercorrono tra calvi e chiomati: se anche gli uomini sono congenitamente più forti, non esistono, propriamente, mansioni maschili, che siano interdette alle donne. Indistintamente dal sesso, gli individui sono divisi in classi di appartenenza: al gradino più basso vi sono i produttori, il cui ufficio è di generare benessere per al società; al secondo posto troviamo invece i guardiani, preposti alla custodia dello stato e, infine, al vertice della piramide, sono i governatori, che si identificano con i filosofi.

A capo della città ideale di Platone sta dunque il filosofo, ossia colui che ha raggiunto una piena conoscenza di che cosa sia il Bene e che, pertanto, può scegliere per il bene della comunità: l’itinerario educativo dei futuri sovrani viene anche illustrato, con dovizia di particolari, nel famoso mito della caverna platonica, dove chi si libera dalle catene che lo tengono imprigionato sul fondo della caverna, risale in superficie a contemplare la realtà nella sua essenza ideale, per poi far ritorno nelle profondità da cui si era allontanato, in modo tale da poter illuminare anche gli altri uomini con le conoscenze acquisite.

Anche il commediografo greco Aristofane, contemporaneo di Platone era molto legato all'idea di utopia Nell'opera “Gli Uccelli” due vecchi Ateniesi, disgustati dal degrado e dall’invivibilità della loro città, decidono di abbandonarla e di cercarne un’altra; ma, poiché città coi requisiti richiesti non ce ne sono, viene loro proposto di fondarne una nuova in aria. Gli uccelli, però, oppongono una ferma resistenza, finchè non vengono persuasi che, con la fondazione della nuova città, potrebbero tornare a dominare, come un tempo, sugli uomini, ricattandoli con l’intercettare il fumo dei sacrifici agli dèi. Non appena fondata la città, la sua salvezza è subita messa a repentaglio dall’improvvisa guerra con la “Città dei baggiani fra le nuvole” e dall’avversione degli dèi per il blocco dei fumi sacrificali. L’opera si chiude con l’egemonia degli uccelli, nuovamente padroni del mondo.

Nel Novecento, Ernst Bloch insiste sul fatto che la realtà data non appaga mai pienamente il soggetto e, sotto questo profilo, non è “vera”: la verità cui tende il soggetto, immaginando e bramando quel che gli manca, non è data, ma è utopia che trascende il presente in direzione del futuro. Il pensiero utopico può scoprire tracce del futuro nel passato e oltrepassa sempre il dato per mirare al futuro, che assurge in posizione di primato. Esso, però, si distingue dalla pura e semplice fantasticheria in quanto media con quel che intende oltrepassare, cioè con le tendenze reali operanti nel presente, come aveva insegnato il maestro Marx: sotto questo profilo, esso è - secondo Bloch - utopia concreta, possibilità reale.

Al centro del pensiero utopico c'è, dunque, la nozione di dialettica, indispensabile per inserirsi in maniera efficace all'interno delle contraddizioni che presenta la realtà e collegarsi al movimento reale della storia per realizzare la verità utopica.

La speranza , come attesa trepidante del nuovo apportatore di salvezza, occupa una posizione di primato tra gli affetti. Con queste riflessioni, Bloch elabora un’ontologia del “non-essere-ancora”, per la quale è costitutivo dell'essere in generale il non essere ancora, l'anticipare il futuro e il mirare ad esso: la sua realtà è realtà di qualcosa che è nel futuro e il futuro è già reale come possibilità oggettiva.

Ma non tutti i progetti ideali a cui tendere sono, necessariamente, utopie, nell’accezione di “luoghi felici”: non sempre, infatti, le idee sono superiori alla realtà - cosa di cui Platone pare non essersi accorto. Ed è quindi bene operare una distinzione tra “utopico” ed “utopistico”: un progetto utopico si distingue da uno utopistico per il fatto che è altamente positivo, degno di essere concretizzato; sotto questo profilo, l’abolizione della schiavitù può essere definita utopica, un modello “buono” da cui trarre ispirazione. Al contrario, qualora non sussistesse la schiavitù, sarebbe utopistico il progetto di ripristinarla: sarebbe cioè un qualcosa di negativo, indegno di essere applicato.

Ma quale potrà essere il criterio per giudicare se un’utopia ha carattere utopico o utopistico? Esistono valori assoluti? Esistono, cioè, cose utopiche in sé e altre utopistiche in sé? Forse, già solo per il fatto che non tutti concordano su cosa sia utopico e cosa invece utopistico, è più corretto ritenere che la pietra di paragone siano gli uomini, in particolare la maggioranza: ciò che ai più pare un progetto utopico, sarà tale; ciò che, viceversa, ai più pare utopistico, sarà utopistico.

Quasi tutti gli “ingegneri” di città utopiche nel corso della storia si sono accorti, o almeno hanno intuito, di come, vivendo in una società, si finisca per adeguarsi ad essa e ai suoi costumi, vivendola come l’unica possibile e non come una fra le tante: quasi come se si venisse assorbiti e inghiottiti dalle sue strutture, perdendo la propria autonomia di pensiero.

L'attaccamento alla società, così come essa si presenta nella realtà, sfocia facilmente in quella che Marx definiva “ideologia”, cioè quel particolare atteggiamento che mira a legittimare lo stato di cose, inteso come espressione della massima razionalità.

In effetti, mentre il pensiero ideologico è essenzialmente quello dei gruppi dominanti, che tendono a nascondere lo stato reale della società allo scopo di mantenerlo così com'è (e pertanto esercitano su di esso una funzione conservatrice), il pensiero utopico assume un atteggiamento risolutamente critico nei confronti di tale società e tende a elaborare una nuova direttiva per un'azione trasformatrice della realtà. L'utopia si configura così come una realtà che non c'è ma che può essere realizzata: una verità forse prematura ma ricca di un suo irriducibile valore, alla quale è bene tendere fin d'ora.

Mannheim fa una vigorosa difesa dello spirito utopico nel mondo contemporaneo: egli conosce bene le cause, anche assai fondate, che hanno condotto la moderna civiltà d'Occidente a diffidare dei movimenti utopici, così spesso emotivi e irrazionali, ma è anche convinto che la passionalità e la fede degli utopisti sono dei valori da non perdere: soprattutto in un'epoca caratterizzata dal crescente successo di una mentalità razionalistica nel senso più ristretto del termine, privilegiante il mero funzionamento meccanico dell'esistente. Di qui il vivo elogio mannheimiano della dimensione intellettuale dell'utopia: la sola in grado di rilanciare quella tensione spirituale (trasformatrice ed emancipatrice della realtà) che appare oggi più che mai indispensabile. Così egli scrive nel suo celebre saggio del 1929, “Ideologia e Utopia”.

“La completa sparizione dell'elemento utopico del pensiero e della prassi dell'individuo verrebbe a dare alla natura e allo sviluppo dell'uomo un carattere radicalmente nuovo. La scomparsa dell'utopia porta a una condizione statica in cui l'uomo non è più che una cosa. Ci troveremmo allora dinanzi al più grande paradosso immaginabile: al paradosso, cioè, che l'individuo proprio in quanto ha conseguito il massimo livello di razionalità nel controllo della realtà, resta senza ideali e diviene una pura creatura impulsiva”.

Se leggiamo le più grandi opere utopiche, ci accorgiamo facilmente di come alcuni valori siano ricorrenti e quasi invariati: da Platone fino ai socialisti utopisti dell’Ottocento, nella società ideale è stata abolita la proprietà, fonte di burrascose contese fra gli uomini e generatrice dell’odio e dell’invidia; ma non solo: anche la comunione delle donne è un tratto spesso comune, lo troviamo già nella “Repubblica” di Platone, e viene predicato ancora da Marx, che pure non voleva assolutamente essere etichettato come utopista. Ma un’utopia può essere proiettata nel futuro oppure nel passato: così Esiodo, nelle “Opere e i giorni”, contrappone, alla società a lui contemporanea, una mitica età dell’oro, in cui gli uomini 

“come dèi vivevano, senza affanni nel cuore, / lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava / la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, / nei conviti gioivano lontano da tutti i malanni; / morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni / c’era per loro; il suo frutto dava la fertile terra / senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti, / sereni, si spartivano le loro opere in mezzo a beni infiniti, / ricchi d’armenti, cari agli dèi beati”. 

Lo stesso paradiso terrestre dei Cristiani - prima del peccato di Adamo ed Eva - quel fantastico mondo utopico in cui si viveva senza lavorare e soffrire, godendo a tempo pieno, molto deve ad Esiodo.

Gramsci, nei suoi “Quaderni del carcere”, sostiene che “la religione è la più gigantesca utopia”, condividendo la prospettiva crociana, secondo cui la religione altro non è se non una concezione del mondo che diventa norma di vita: Gramsci scorge in ciò una componente altamente utopica, una conciliazione delle contraddizioni che costellano la realtà storica, ma nota un imprescindibile limite nel fatto che tale conciliazione non si traduca nella trasformazione effettiva della realtà storica, ma venga - al contrario - proiettata nell’aldilà. Ciononostante, la religione - e Gramsci ha soprattutto in mente quella cristiana - mette a disposizione degli uomini criteri mediante i quali valutare la discrepanza della realtà storica rispetto ad una compiuta realizzazione di essi e può, secondo Gramsci, fungere da motore di rivendicazioni e rivolte.

La tematica religiosa era portante anche nel progetto utopico di Tommaso Campanella, esposto nel suo scritto “La città del Sole”: ancora una volta l’innovazione, l’ansia di rinnovamento, il tentare e l'intravedere strade nuove viene da un religioso, ribelle per l’epoca perché “troppo avanti e ardito” nelle sue intuizioni. Campanella confessò di esser nato “a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi ipocrisia”, ed è appunto queste tre piaghe che egli mira a sconfiggere nella sua città ideale, una città con un regime comunitario, dove la famiglia è la grande assente perché si identifica con lo Stato, è retta da Potenza, Sapienza, Amore, sopra i quali sta il detentore del “vero sapere”. La religione professata dai suoi abitanti è un deismo privo di dogmi, con confessione pubblica e cremazione dopo la morte: alla sommità del monte più alto si trova un tempio di forma circolare, consacrato al Sole, sulla cui volta sono dipinte le stelle maggiori. Al centro della vita pubblica della Città del Sole - su cui non vi è proprietà privata e le donne sono di tutti - è posto il lavoro, considerato l'unico fattore di differenziazione dei cittadini in base alle loro capacità. Il progetto appare in bilico tra l’utopico e l’utopistico, in quanto è sì animato da una sincera volontà di render felici gli uomini, ma, di fatto, non viene lasciato quasi nessuno spazio alla libertà dell'autodeterminazione individuale; il che rende l’utopia di Campanella molto meno moderna di quella formulata quasi un secolo prima da Moro.

Scoraggiato anch’egli dalla politica della società inglese e lui stesso allontanatone per motivi di corruzione, Francis Bacon sviluppò i suoi ideali politici ricorrendo all’utopia: al centro del progetto baconiano, tuttavia, non vi è il problema religioso, ma quello scientifico; la fantastica isola su cui ambienta la sua società ideale, è l’Atlantide di Platone, o, meglio, la “Nuova Atlantide” (come recita il titolo dell’opera di Bacone del 1627 in cui è custodito il progetto).

La tradizione attribuisce a Bacone il motto “sapere è potere”, riconoscendo nel filosofo inglese colui che per primo e in modo più marcato instaurò un forte legame tra il sapere e l’azione. Egli narra di una fittizia tempesta che travolse l’imbarcazione su cui navigava coi suoi compagni costringendoli a naufragare e a chiedere riparo agli abitanti di un’isola sconosciuta, quasi appartenente ad un altro mondo. Si tratta, è evidente, di un naufragio “positivo”, che porta Bacone e i suoi compagni di viaggio a contatto con una cultura più avanzata, una civiltà che conosce tutte le altre, ma che è sconosciuta e che ha sempre saputo rimanere “pura”, senza degenerare attraverso contatti con le altre società; proprio per questo motivo, in un primo tempo si mostra riluttante ad accogliere e a far sbarcare l’equipaggio straniero. Finalmente sbarcati, i forestieri vengono guidati per l’isola, apprendendo come i suoi abitanti attribuiscano ogni singola entità a Dio: gli stessi scienziati che reggono la città possono estendere il loro dominio sulla realtà, trasformarla, alterarla, imitarla, riprodurla, soltanto in quanto la conoscono secondo verità, secondo il suggello su di essa imposto da Dio.

Si capisce bene come, più che di una città, si tratti di un gigantesco laboratorio scientifico, finalizzato all’ “estensione dei confini del potere umano ad ogni cosa possibile”, per poter in tal modo perfezionare la vita di tutti. Si fanno preparati medicinali, si riproducono i fenomeni atmosferici, si generano artificialmente gli insetti, si depura l'acqua salata per renderla dolce, si prolunga la vita dell'uomo, si elaborano strumenti tecnici all'avanguardia, si edificano torri altissime (addirittura mezzo miglio di altezza), si creano pozioni e acque nutrientissime, si sperimentano sugli animali ogni sorta di veleni per meglio provvedere alla salute del corpo umano. Le cascate d'acqua vengono ingegnosamente impiegate come forza motrice e gli abitanti dispongono di aria condizionata, di microscopi, di telescopi, di condotti capaci di trasmettere i suoni a grande distanza, di sommergibili e, perfino, di macchine per volare. Il progetto baconiano può essere però soggetto a critiche: oltre a non essere una democrazia e ad essere fin troppo lontano dal reale, non tiene conto delle differenze tra tecnica e politica, non si accorge cioè che la politica non é fatta di sole scelte tecniche.

Nel Settecento si diffonde a macchia d’olio la fiducia nei lumi di una ragione ritenuta la vera legislatrice della vita umana: più che di utopie sulle carte, il nuovo secolo si nutre di utopie fatte reali; la prima, grande esperienza utopica risiede nell’assolutismo illuminato, ossia nel tentativo dei “philosophes” di coinvolgere e indirizzare l’esercizio del potere dei grandi sovrani europei verso modelli più razionali e meno impopolari; alla corte dello zar Pietro il Grande, nelle cui mani è accentrato un potere talmente vasto che spesso si è parlato di “autocrazia”, troviamo niente poco di meno che Leibniz, poliedrica figura di genio universale; Voltaire, dal canto suo, intrattiene stretti rapporti di amicizia e di collaborazione con Federico II il Grande, re di Prussia; Cesare Beccaria, infine, lavora presso gli Austriaci a Milano, dove - con il suo scritto “Dei delitti e delle pene” - dimostra l’assurdità e l'infondatezza del sistema giuridico vigente e riesce a persuadere il governo ad abolire la pena di morte.

Ma è dal fallimento dell’esperienza utopica dell’assolutismo illuminato che scaturisce la seconda realizzazione utopica del Settecento: la Rivoluzione Francese. Quando il popolo prese atto dell’inattuabilità del progetto portato avanti dai “philosophes” a corte e del tracollo di quella che doveva essere una rivoluzione gestita dall’ “alto”, allora apparirà impellente la necessità di riformare la società - in maniera rivoluzionaria - dal “basso” e saranno i ceti popolari ad imbracciare le baionette e a scendere sulle piazze, seminando il terrore e gettando alle fiamme tutti gli antichi residui del feudalesimo, retaggio di un passato ormai incompatibile coi tempi.

La Rivoluzione Francese segnò il realizzarsi dell’utopia borghese, il liberarsi da quei vincoli medioevali che impedivano il pieno sviluppo di una società borghese e produttiva; ma anche in quest’età vennero alla luce scritti utopici che contestavano la proprietà privata, in sintonia con la tradizione utopica che da Platone giungeva fino a Campanella e oltre. È questo il caso di Morelly, il quale, nel suo “Codice della Natura” (1755), pone al centro la proprietà comune, base per la socievolezza e - attraverso la ragione e l'attività produttiva - condizione per il passaggio al “comunismo conscio del futuro”. Ad intraprendere la linea comunistica fu anche Francoi-Noel Babeuf, che però - a differenza di Morelly - cercò di dare un risvolto pratico al suo progetto, ordendo una congiura - passata alla storia come “la congiura degli Uguali” - con la quale si proponeva di rovesciare il governo e di concretizzare il suo disegno. Soprannominato “Gracco Babeuf” per le sue posizioni radicali che rievocavano quelle dell’antico tribuno della plebe romana, egli si fece sostenitore della proprietà comune della terra e dei mezzi di produzione, nonché dell'assoluta eguaglianza di tutti i cittadini, proponendo la creazione di una “Repubblica degli uguali”.

Babeuf non si limitava a tratteggiare un progetto ideale, ma forniva anche le strategie affinchè esso potesse essere realizzato: per eliminare la proprietà privata, si doveva a suo avviso far ricorso alla confisca e all’abolizione del principio di eredità; la sua repubblica utopica non potè mai essere realizzata e la congiura ordita da lui e dai suoi sostenitori si concluse in un bagno di sangue, in un massacro generale costato la vita a moltissime persone.

Ma nel Settecento decolla anche l’industria, nascono le fabbriche moderne e, con esse, si sviluppa rapidamente una nuova classe sociale fino ad allora pressochè inesistente: il proletariato, che non ha nulla da vendere se non la propria forza-lavoro e non ha altra ricchezza su cui far affidamento se non sulla prole, mandata a lavorare in fabbrica. Perché il nuovo modo di produzione, fondato sul sistema di fabbrica, potesse affermarsi, era indispensabile che si formasse una massa di popolazione del tutto priva dei mezzi di sostentamento, disponibile a vendere la propria forza-lavoro a chi possedeva gli strumenti di lavoro. In qualche modo, tuttavia, i segni lasciati dalla Rivoluzione Francese permangono: le differenze tra i diversi gruppi sociali non sono più rigidamente fissati dal diritto, ma dall’economia, ossia dal possesso di ricchezze e di strumenti di produzione. L’operaio condannato a lavorare in fabbrica per tutta la vita non si arricchisce, si limita a trarre i mezzi sufficienti per il suo sostentamento, ma genera ricchezza per il capitalista che possiede i mezzi di produzione: di fronte al nuovo assetto di una società in cui cresceva sempre più il benessere ma trovava una sempre meno equa distribuzione, fiorirono numerose opere utopiche che proponevano - almeno sulla carta - società diverse, mettendo un luce come forse fosse possibile un mondo più giusto, in cui tutti potessero raggiungere la felicità.

Adam Smith sostiene, nel Settecento, che il liberismo è la miglior forma possibile di economia, in quanto esiste una fantomatica “mano invisibile” che fa sì che, dietro l’egoistica ricerca dell’interesse personale condotta dagli individui, vi sia alla fine una distribuzione dei beni diffusa a tutti, seppur in misure diverse. Non è difficile capire come l’ideazione di Adam Smith non sia esente da valenze utopiche.

Alle forme di socialismo “utopistico”, Marx ne contrapporrà una rigorosamente scientifico, che prenderà le mosse dall’analisi della realtà e delle sue insanabili contraddizioni: dall’irrazionalità del reale e dalle contraddizioni del sistema capitalistico dovrà, secondo Marx, necessariamente scatenarsi una rivoluzione che capovolgerà violentemente lo stato di cose, segnando il passaggio materiale dalla fase capitalistica a quella comunistica, in cui scompariranno lo stato e la proprietà privata dei mezzi di produzione, quella proprietà che fa sì che l’operaio possa essere sfruttato all’inverosimile. L'atteggiamento assunto da Marx è critico in ogni istante, prende e supera le tradizioni precedenti: e così, sul piano politico, accetta la critica al capitalismo ma ne biasima il carattere utopistico che finora l'ha contraddistinta, precisando che dal socialismo utopistico si deve passare al socialismo scientifico , ovvero il socialismo va inteso non come delineamento mentale di una società ideale, bensì come necessaria conseguenza del tramonto imminente del capitalismo.

Studiando in modo approfondito il capitalismo, infatti, è impossibile non vedere come esso, infetto dalle sue stesse contraddizioni, si ribalterà, prima o poi, nel suo opposto: è un'analisi scientifica, una constatazione che si basa su dati di fatto e che porta a prevedere ciò che necessariamente sarà. Le contraddizioni ravvisate da Marx nel sistema capitalistico sono parecchie e, tra le tante, possiamo qui menzionare, come esempio, il meccanismo della concorrenza, la quale tende essa stessa a capovolgersi in oligopolismo.

Marx, sfaldate sotto i colpi di una critica demolitrice le utopie dei suoi predecessori, profetizza l’avvento di una società futura senza classi, senza stato e senza proprietà, rifiutando con fermezza il titolo di “utopista” di cui spesso è stato insignito: la sua non è utopia, ma inevitabile realizzazione di una realtà prevedibile scientificamente sulla base del presente; non è un progetto ideale a cui tendere, ma il necessario accadere degli eventi post-capitalistici. Pare tuttavia arduo delimitare i confini che separano, nel progetto marxiano, l’utopia dal realismo: lui che per tutta la vita criticò duramente chi rimase impigliato dai fantasmi delle utopie, fino a che punto non ne fu a sua volta malato? Nei pochi passi della sua opera da cui filtrano brevi descrizioni della futura società comunistica, è facile evincere come essa sia in buona parte connotata dalle caratteristiche tipiche della società ideale: così, ne “L’ideologia tedesca”, leggiamo che l’uomo inserito nell’era comunista è al contempo cacciatore, pescatore, pastore, e critico.

Al di là di questa caratterizzazione arcadica e assai poco moderna della vita nella società futura, Marx prospetta una fase socialista come intermedia tra quella capitalistica e quella comunista: tramontato il sistema capitalistico, sarebbe impossibile passare immediatamente al momento comunista, in cui vien meno la proprietà, poiché gli individui sono ancora in parte ideologicamente legati alla società passata, basata sul denaro e sulla proprietà; si dovrà pertanto, secondo Marx, attuare una fase intermedia, in cui si realizzeranno quegli obiettivi che il sistema capitalistico si era chimericamente proposto di raggiungere, senza mai riuscirvi: il motto di questa fase di passaggio sarà dunque “a ciascuno secondo il suo lavoro”, espressione che compendia la necessità di una distribuzione dei beni pari al lavoro compiuto, in antitesi al sistema di fabbrica, dove chi lavora non guadagna e chi guadagna non lavora. Questo socialismo di frontiera si configurerà allora come piena realizzazione di quella meritocrazia (esaltata a gran voce dal sistema capitalistico, ma nei fatti ipocritamente accantonata) per cui ciascuno guadagna in base a quanto produce. Spianata in questo modo la strada e venuta meno la mentalità imperante nell’età del capitalismo, sarà possibile il passaggio al terzo momento, quello comunistico, in cui al motto “a ciascuno secondo il suo lavoro” si sostituirà quello “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. In questo nuovo modello di società, infinitamente distante da tutte quelle finora realizzatesi (e per questo fortemente utopica), l’individuo sarà compensato sulla base non di quel che produce, ma, al contrario, di ciò di cui abbisogna; in quest’ottica, ognuno sarà tenuto a svolgere prestazioni lavorative pari alle sue capacità, per poi ricevere compensi proporzionali ai suoi bisogni.

In direzione anti-capitalistica, ma con un’accentuata attenzione per l’assurdità di gran parte delle convenzioni sociali, si dirigeva anche lo scritto “Che fare?” (il cui titolo sarà ripreso dallo stesso Lenin) di Cernyševskij, in cui lo scrittore russo propugnava utopicamente l’uguaglianza dei sessi e una produzione di tipo cooperativistico, capace di garantire una distribuzione egualitaria dei profitti. In sostanza, tuttavia, per le modalità e le soluzioni prospettate, il progetto era inevitabilmente condannato a rimanere sulle pagine dei libri, senza poter sperare una reale attuazione, nonostante l’Ottocento (ma più ancora il Novecento) sia per molti versi stata un’epoca di incontro della realtà con l’utopia.

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a proposito di utopie cantate

Jhon Lennon, Imagine

“Immagina che non ci sia il paradiso, è facile se ci provi
Ne l'inferno sotto di noi, sopra di noi solo il cielo
Immagina tutta la gente che vive giorno per giorno
Immagina che non ci siano nazioni, non è difficile
Nulla per cui uccidere o morire ed anche nessuna religione
Immagina tutta la gente che vive in pace
Potresti dire che sono un sognatore
Ma non sono l'unico
Spero che un giorno ti unirai a noi
E il mondo vivrà come se fosse uno solo
Immagina che non ci siano proprietà, mi chiedo se ci riuscirai
Nessun bisogno di avidità o brama, una fratellanza dell'uomo
Immagina tutte quante le persone
Che condividono il mondo intero
Potresti dire che sono un sognatore
Ma non sono l'unico
Spero che un giorno ti unirai a noi
E il mondo vivrà come se fosse uno solo”.

Imagine there's no heaven / It's easy if you try / No hell below us / Above us only sky / Imagine all the people / Living for today
Imagine there's no countries / It isn't hard to do / Nothing to kill or die for / And no religion, too / Imagine all the people
Living life in peace... You...
You may say I'm a dreamer / But I'm not the only one / I hope someday you'll join us / And the world will be as one
Imagine no possessions / I wonder if you can / No need for greed or hunger / A brotherhood of man / Imagine all the people
Sharing all the world... You...
You may say I'm a dreamer / But I'm not the only one / I hope someday you'll join us / And the world will live as one







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